Andavamo in Oriente, ma andavamo anche nel Medio Evo o nell’età dell’oro, perlustravamo l’Italia o la Svizzera, ma ogni tanto pernottavamo anche nel secolo decimo e abitavamo coi patriarchi o con le fate.
Quando rimanevo solo ritrovavo spesso regioni e uomini del mio proprio passato, passeggiavo con la mia ex fidanzata sulle rive boscose dell’Alto Reno, facevo baldoria con amici di gioventù a Tubinga, a Basilea o a Firenze, oppure ero ragazzo e partivo coi compagni di scuola per acchiappare farfalle o a fare la posta a una lontra, o la mia compagnia era formata dai personaggi prediletti dei miei libri, accanto a me cavalcavano Almansor e Parsifal, Viticone o Boccadoro o Sancio Panza, o eravamo ospiti dei Barmecidi.
Quando poi in qualche valle ritrovavo il nostro gruppo, e ascoltavo i nostri canti e mi accampavo dirimpetto alla tenda delle Guide, allora mi rendevo facilmente conto che il mio ritorno all’infanzia o la mia cavalcata con Sancio erano parte integrante del mio viaggio; la nostra meta infatti non era soltanto il paese di levante, o meglio il nostro Oriente non era soltanto un paese e un’entità geografica, ma era la patria e la giovinezza dell’anima, era il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo, era l’unificazione di tutti i tempi.
H. HESSE (1877 – 1963), Il pellegrinaggio in Oriente (1932), traduzione di Ervino Pocar, Adelphi, Milano 1978 (quarta edizione, prima edizione 1973), Capitolo I, pp. 27 – 28.