Hermann Hesse. LʼOriente era la giovinezza dell’anima, il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo

Andavamo in Oriente, ma andavamo anche nel Medio Evo o nell’età dell’oro, perlustravamo l’Italia o la Svizzera, ma ogni tanto pernottavamo anche nel secolo decimo e abitavamo coi patriarchi o con le fate.

Quando rimanevo solo ritrovavo spesso regioni e uomini del mio proprio passato, passeggiavo con la mia ex fidanzata sulle rive boscose dell’Alto Reno, facevo baldoria con amici di gioventù a Tubinga, a Basilea o a Firenze, oppure ero ragazzo e partivo coi compagni di scuola per acchiappare farfalle o a fare la posta a una lontra, o la mia compagnia era formata dai personaggi prediletti dei miei libri, accanto a me cavalcavano Almansor e Parsifal, Viticone o Boccadoro o Sancio Panza, o eravamo ospiti dei Barmecidi.

Quando poi in qualche valle ritrovavo il nostro gruppo, e ascoltavo i nostri canti e mi accampavo dirimpetto alla tenda delle Guide, allora mi rendevo facilmente conto che il mio ritorno all’infanzia o la mia cavalcata con Sancio erano parte integrante del mio viaggio; la nostra meta infatti non era soltanto il paese di levante, o meglio il nostro Oriente non era soltanto un paese e un’entità geografica, ma era la patria e la giovinezza dell’anima, era il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo, era l’unificazione di tutti i tempi.

H. HESSE (1877 – 1963), Il pellegrinaggio in Oriente (1932), traduzione di Ervino Pocar, Adelphi, Milano 1978 (quarta edizione, prima edizione 1973), Capitolo I, pp. 27 – 28.

Il problema dell’esistenza come salvezza, e conquista della personalità


Il problema dell’esistenza è il problema della conquista di sé come totalità ed unità assoluta, il problema che coniuga dell’uomo tutti i fattori ed i valori del tempo e dell’eterno. L’uomo è un problema: «chi è? dove va? perché?»

Il problema dell’esistenza non solo implica, quindi, il possesso e la conoscenza dell’uomo nella sua totale manifestazione fisica e metafisica, ma implica anche il problema del metodo con il quale l’uomo può raggiungere questo possesso assoluto di sé e questa conoscenza, ponendosi nell’esistenza. 

In fondo il problema dell’esistenza è il problema della salvezza. L’umanità si è affaticata, si travaglia e lavorerà sempre intorno al problema della salvezza. Tutta la filosofia dell’Oriente e dell’Occidente, tutti gli sforzi delle religioni moderne ed antiche, sono stati sempre rivolti alla soluzione di questo problema. I metodi sono stati vari, i risultati ottenuti più o meno profondi, ma l’ideale è stato sempre identico.

Il problema dell’esistenza è un problema di conquista: l’esistenza non è data, ma deve conquistarsi, e questa conquista si concentrerà (come vedremo) nel raggiungimento della personalità intesa come sintesi di tutti valori umani e spirituali nello sfondo e nell’esperienza dell’eterno.

Il problema esistenziale non può essere risolto che in termini di progresso, di storicità e di affermazione, e non può essere appoggiato ad una concezione pessimistica della vita che prospetti ritorni o naufragi nel nulla. 

Il problema esistenziale, ripetiamo, non può essere che “consistenziale”, e cioè, non può che condurre ad una “affermazione” di valori, se questi sono veri valori. Il problema dell’esistenza è, quindi, eminentemente un problema di conquista e, come tale, un problema di ascesa promossa dallo sforzo e dalla volontà. 

Qualsiasi filosofia conducente alla rinunzia dei valori a cui l’uomo si sente e deve sentirsi chiamato, non può essere una filosofia esistenziale concreta.
La filosofia dell’esistenza non può essere fondata che nella voce che dal profondo ci stimola, ci esorta, ci spinge ad usare e ad ascendere sulla via dei valori eterni che, attraverso la conquista unitaria e totale di sè, l’uomo realizza mediante la sintesi dell’assoluto umano nell’assoluto divino.

Il mondo esistenziale è un mondo a sé che si eleva sopra la scala di tutti gli altri mondi. Esso si eleva su per il mondo umano, sopra quello spirituale, sopra quello religioso. Per raggiungerlo occorre sforzo di diuturno e volontà.

Per questo la filosofia dell’esistenza non può basarsi se non nel proposito di conseguire la perfezione, e sulla rinunzia di ciò che al mondo esistenziale può impedirci di ascendere e pervenire.

R. Giordani, L’esistenza come conquista della personalità, 1945 

La conoscenza di se stessi, e il mondo contemporaneo

ego-mask

L’uomo può, ma non deve, nessuno è obbligato a conoscersi. Conoscendosi può reintegrare ogni suo aspetto scisso, e donarsi la vera libertà: la libertà da noi stessi. E’ sicuramente un lavoro doloroso, che impone disciplina, capacità di giudizio, e di assumersi integralmente responsabilità e dovere.

Purtroppo viviamo in una società che tende a deresponsabilizzare, a far vivere l’uomo in un eterno stato di fanciullezza legata al terribile binomio io-mio. Una doppia catena illusoria in quanto ciò che oggi definisce l’Io è l’apparenza e il possesso, imposti dal mondo esterno, e quanto definisce il mio è l’insieme di quelle caducità che l’era dei consumi ci suggerisce di avere per sognare di essere.

E’ triste osservare che la catena io/mio colpisce anche coloro che pretenderebbero di essere persone dedite alla ricerca spirituale. Dove spesso si è in virtù di fogli di carta, di riconoscimenti, e si conta in base a quante persone si raccolgono attorno a noi. Assistiamo ad una rincorsa di roboanti proclami, di progetti assurdi, di personalismi isterici, dove tutto ciò è funzionale solamente a mantenere l’uomo in uno stato di ipnotica dipendenza

Tratto da Uomo Ente Magico