Il concetto “nostalgico” di paradiso da Est a Ovest

Tutti cercano il loro paradiso. Durante il Medioevo, mentre i cristiani europei credevano che il Giardino dell’Eden si trovasse in estremo oriente, nello stresso estremo oriente i buddisti pensavano a un paradiso occidentale, ritenevano cioè che una terra felice si trovasse proprio nell’estremo occidente, che per loro era dalle parti dell’Europa.

L’erba del vicino, in questo caso «del lontano», è sempre più verde. Il paradiso non è da nessuna parte, eppure sembra essere ovunque, nonostante quello che diceva Yuri Gagarin, che, uscito dalla navicella spaziale, si vantava di essere stato in cielo, ma di non aver visto né Dio né il paradiso.

In realtà tutte le religioni hanno un paradiso, e tutti i popoli per uno stato felice situato agli inizi, o l’anelito per una gioia infinita da aspettarsi alla fine. Tutte le civiltà hanno immaginato uno stato paradisiaco, un luogo paradisiaco, un tempo paradisiaco. Nella Bibbia degli ebrei e dei cristiani questo luogo si chiama Giardino dell’Eden. Ci sono però anche i Campi Elisi, il Giardino delle Esperidi, l’Isola dei Beati, le Isole Fortunate, Atlantide, il Frita Yuga, il regno di Ra e di Isis, l’isola di Avalon, il Monte Meru, il regno di Saturno e la Montagna di Heredom.

Questa nostalgia del paradiso prende tanti nomi e assume tante forme. Eppure il paradiso resta sempre altrove, sempre inaccessibile, sempre fuori dal tempo…il paradiso, a seconda delle varie opinioni, è esistito ieri, durante l’età dell’oro, in un tempo meraviglioso, oppure tornerà domani, quando il mondo finirà e avremo il paradiso in terra.

Oppure è già qui, da qualche parte, soltanto dietro l’angolo, magari oltre oceano, in un’isola remota che però non possiamo raggiungere…

A. Scafi, Alla scoperta del paradiso: un atlante del cielo sulla terra, 2012.

Il Velo di Maya tra induismo e filosofia occidentale

Come erroneamente, spesso, si crede, il concetto di “Velo di Maya”, non proviene dalla tradizione induista, ma è un concetto introdotto dal filosofo occidentale Arthur Schopenhauer nel secolo diciannovesimo.


Nell’Induismo il termine sanscrito Maya, indica, genericamente, quel magico potere divino che crea mille forme ed esperienze delle quali l’uomo è irrimediabilmente prigioniero, scambiando per reale, un sogno ingannevole e illusorio.


Maya è quasi un fantasmagorico gioco magico che cela, l’immutabile Principio Assoluto, il Brahman, creando l’illusorio mondo materiale. Schopenhauer, grande studioso delle filosofie orientali, conscio che il mondo materiale è solo apparenza, illusione e sogno, afferma, ripetutamente, nei suoi saggi che, tra noi e la vera realtà, è come se vi fosse uno schermo che ce la mostra distorta e non come essa è veramente: il Velo di Maya.


La nostra “realtà” è dunque, secondo Schopenhauer, una “rappresentazione” che ha due aspetti essenziali: il soggetto rappresentante e l’oggetto rappresentato. Entrambi esistono soltanto all’interno della rappresentazione, come due lati o parti di essa, tanto che non può esistere soggetto senza oggetto.


Il filosofo, riconosce l’esistenza di una forza cieca, che egli denomina come Volontà, analoga alla Maya induista: una forza priva di finalità, arbitraria, causa dell’esistenza della rappresentazione bipolare caratterizzata dal dualismo Soggetto-Oggetto, che causa una insaziabile attaccamento al mondo irreale ed illusorio in cui siamo immersi.


Rimanendo fedele, alle concezioni filosofiche orientali, Schopenhauer afferma che attraverso la “Liberazione”; esiste la possibilità di squarciare il Velo di Maya, cioè di uscire dalla condizione umana. Il primo passo per conseguire questo stato è quello di prendere consapevolezza che si sta vivendo nell’illusione: occorre dunque uscire dall’ambito puramente fenomenico e sottrarsi al dominio della Volontà, che impedisce all’essere umano di fare esperienza della Verità, del principio assoluto di realtà.

A. Shopenhauer, “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione

Rudolf Steiner: la “Stella dell’Unione” tra scienza ufficiale e scienza occulta

The-Challenge-of-Rudolf-Steiner-1

 

La stella che brilla su questo libro [La Scienza Occulta, N.d r.] è la Stella dell’Unione, e la sua luce, alta sul buio mare del presente, è destinata alla prossima salvezza dei naviganti che per tutta la notte hanno navigato sotto cieli ciechi, e si apprestano adesso a raggiungere alfine il porto dell’originaria patria, una patria da conquistare a nuovo nella rinnovellata coscienza maturatasi durante il lungo esilio della peregrinazione.

Ora, poco prima dell’alba, sorge la stella mattutina: la luce del Cristo spirituale, che riporterà gli uomini all’unione divina di tutti nell’Uno, e questa Unione sarà anche quella di due scienze: una ufficiale occidentale moderna, con una occulta orientale antichissima. Ma entrambe muteranno la loro natura, se vorranno raggiungere l’Unione, e solamente nell’unione reciproca entrambe son vere.

 

R. Steiner, La Scienza Occulta, 1932; prefazione di A. Onofri, p. 7

William Walker Atkinson: il concetto di abitudine e la coscienza di «sé»

ecco-come-unabitudine-strategica-potra-apportare-enormi-miglioramenti-alla-vostra-vita

Generalmente si considerano «abitudini» quelle azioni o stati che si ripetono con una frequenza ciclica quasi inalterata. Così diventa un abitudine cenare ad una certa ora, dormire per un dato numero di ore, camminare in un certo modo.

Il concetto orientale di abitudine è ben diverso, tale da assumere per la mentalità occidentale un aspetto che rasenta il trascendente o la sublimazione. Il concetto yogico di abitudine, è fondato sulla premessa che può considerarsi naturale atteggiamento dell’uomo solo quello stato in cui l’uomo stesso compie un certo numero di azioni o di pensieri realizzando pienamente sè stesso.

E’ evidente l’enorme differenza tra la diversa concezione orientale e occidentale di abitudine. Mentre per l’Occidente può considerarsi benissimo abitudinario – per esempio – il fatto che un uomo usi frequentemente intercalare il suo discorso con certe espressionio, per gli yogi questa non è abitudine se l’uomo – usando quella determinazione espressiva – non usa totalmente la coscienza si Sè.

Questo perchè per gli yogi l’uomo è veramente tale quando la sua entità essenziale è il suo propio «io» realizzato.

Se l’uomo non è a questo grado di sviluppo non è ancora arrivato al «naturale», che altro non è se non la realizzazione del proprio Sè. Quindi se non si è giunti a questa realizzazione si è ancora lontani dallo stato di «natura» dell’uomo stesso e non si può parlare di abitudini in quanto, come abbiamo detto, l’abitudine può derivare solo da una piena realizzazione della propria intima essenza di «ente» pensante.

W. W. Atkinson, Il segreto della memoria. Come sviluppare le proprie facoltà, pp. 10-11.

Fernando Pessoa e la quarta dimensione nell’arte

Psicologia-del-Arte-2.jpg

Spesso ci si interroga sul che cosa sia, e come possa essere interpretata l’idea di una quarta dimensione. In un suo breve e intenso saggio, il grande letterato portoghese ci illustra con una semplicità disarmante il suo significato, in correlazione con l’arte, tra spazio e tempo:

«Tutti i fenomeni avvengono nello spazio. Le «dimensioni» degli oggetti, non risiedono in essi, bensì in noi. Sono condizioni di sensibilità, categorie di credibilità.

1. L’unica realtà e la sensazione.
2. Il massimo grado di realtà si darà sentendo tutto in tutte le maniere (in tutti i tempi).
3. Per questo è necessario essere tutto e tutti. Il sensazionalismo è l’arte delle quattro dimensioni.
Apparentemente le cose hanno – anche quelle del sogno, nella loro apparenza visualizzata – tre dimensioni; queste dimensioni sono note quando si tratta di materia spaziale.

Possiamo concepire solo cose a tre o meno dimensioni. Ma se le cose esistono come esistono soltanto perchè noi le sentiamo in quel modo, ne consegue che la «sensibilità» (la facoltà di essere sentite) è una loro quarta dimensione».

F. Pessoa, Pessoa Inedito, 1993

Hermann Hesse. LʼOriente era la giovinezza dell’anima, il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo

Andavamo in Oriente, ma andavamo anche nel Medio Evo o nell’età dell’oro, perlustravamo l’Italia o la Svizzera, ma ogni tanto pernottavamo anche nel secolo decimo e abitavamo coi patriarchi o con le fate.

Quando rimanevo solo ritrovavo spesso regioni e uomini del mio proprio passato, passeggiavo con la mia ex fidanzata sulle rive boscose dell’Alto Reno, facevo baldoria con amici di gioventù a Tubinga, a Basilea o a Firenze, oppure ero ragazzo e partivo coi compagni di scuola per acchiappare farfalle o a fare la posta a una lontra, o la mia compagnia era formata dai personaggi prediletti dei miei libri, accanto a me cavalcavano Almansor e Parsifal, Viticone o Boccadoro o Sancio Panza, o eravamo ospiti dei Barmecidi.

Quando poi in qualche valle ritrovavo il nostro gruppo, e ascoltavo i nostri canti e mi accampavo dirimpetto alla tenda delle Guide, allora mi rendevo facilmente conto che il mio ritorno all’infanzia o la mia cavalcata con Sancio erano parte integrante del mio viaggio; la nostra meta infatti non era soltanto il paese di levante, o meglio il nostro Oriente non era soltanto un paese e un’entità geografica, ma era la patria e la giovinezza dell’anima, era il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo, era l’unificazione di tutti i tempi.

H. HESSE (1877 – 1963), Il pellegrinaggio in Oriente (1932), traduzione di Ervino Pocar, Adelphi, Milano 1978 (quarta edizione, prima edizione 1973), Capitolo I, pp. 27 – 28.

Apologia della virtù. Un filo conduttore tra Oriente e Occidente


Perché gli antichi saggi e filosofi, da Oriente a Occidente, hanno insistito fino all’apologia sull’importanza della virtù? Semplice, perché essa, opponendosi al vizio, è il fulcro della saggezza stessa.

La concezione della virtù nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell’etica e delle sue trasformazioni nel corso del tempo.

«Così in Platone le virtù corrispondono al controllo della parte razionale dell’anima sulle passioni. Ne La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da Sant’Ambrogio in poi verranno chiamate “cardinali”, vale a dire “principali”: la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza d’animo necessaria per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o “prudenza”, variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che costituisce, come controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la giustizia è quella che realizza l’accordo armonico e l’equilibrio di tutte le altre virtù presenti nell’uomo virtuoso e nello stato perfetto».

Mentre Platone parlava genericamente di saggezza per l’esercizio della virtù, Aristotele la distingue invece dalla “sapienza”. La saggezza, o “prudenza”, è una “virtù dianoetica”, propria cioè della razionalità comune a tutti che ispira la condotta umana permettendo il giusto esercizio delle “virtù etiche”, quelle cioè che riguardano l’azione concreta.

«Il Confucianesimo indica come virtù la rettitudine, il sacrificio, la dignità, l’intelligenza e la fedeltà, e considera la dedizione e il perdono come azioni morali. Il Buddhismo indica come virtù l’astinenza dall’assassinio, dal furto, dalla perversione sessuale, dalla pazzia e dall’ubriachezza, e considera la cordialità e la compassione come azioni morali».

«Nel Taoismo, la virtù è coltivazione la dei cinque elementi (oro, legno, acqua, fuoco, terra) e l’azione morale è la comprensione intuitiva. Tutte queste virtù, si trovano dentro di noi e non c’è bisogno di cercarle altrove». 

Non a caso il grande saggio cinese Lao-Tze, scrive quella meravigliosa opera cosmologica che è il “Tao te Ching”, ovvero il libro della via (Tao) e della virtù, considerato come una delle vette di tutto il pensiero filosofico ed etico cinese, nel quale anticipa scoperte che solo oggi la fisica quantistica sta confermando, circa la formazione dell’universo. 

Platone, Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a fronte, a cura di M. Vitali, 2008
E. Wong, Classico della purezza e della quiete. Manuale taoista per coltivare la calma, 2006 (commenti al testo miei)

La sintesi Uno-Molteplice: le vie della mistica orientale e occidentale verso l’Uno


Un contributo non trascurabile alla “sintesi” tra la concezione Occidentale e quella Orientale, va attribuito a Pierre Teilhard de Chardin (Orcines, 1º maggio 1881 – New York, 10 aprile 1955) gesuita, filosofo e paleontologo francese, che venne poi accusato di panteismo.

Durante la lunga permanenza nel continente asiatico, approfondita la mistica indiana, cinese, giapponese, de Chardin, avviò una profonda riflessione sui rapporti tra l’Uno e il Molteplice e scrisse, nel 1932, il saggio “Route de l’Ouest. Vers une mystique nouvelle” e nel 1947, appena ritornato definitivamente in Europa, “L’apport spirituel de l’Extreme-Orient. Quelques réflexions personneles“.

Egli Sostenne che la via orientale all’Uno, espressasi nelle sue tre più importanti direzioni di ricerca mistica, costituisse il punto di unione tra la mistica occidentale e quella orientale: ritenne che l’India fosse stata l’iniziatrice della mistica mondiale con il “ciclone mistico” originatosi nella valle del Gange; fece proprio il desiderio di unità, l’attaccamento alla Terra, il senso dell’equilibrio con il cosmo indiani, il sentimento umano della compassione e del collettivo della Cina, il valore della socializzazione del Giappone. Una visione molto vicina a quella taoista di Lao-Tze.

Tuttavia sostenne che la via dell’Oriente, a differenza del Cristianesimo, non fosse riuscita a realizzare una sintesi soddisfacente perché, in questa tradizione, l’aspirazione a realizzare l’Uno si scontrerebbe con il molteplice visto come negatività ed ostacolo all’ascesi come percorso verso l’Uno, dove i fenomeni, anziché manifestare l’Uno a cui si aspira nell’abbraccio mistico, lo nascondono.

Al di là della sua visione panteistica, è il successivo recupero della sua persona, crediamo che non via sia stato alcun fraintendimento della sua visione cosmologica, che gli adirò le ire della chiesa cattolica. 

Pierre Teilhard de Chardin, a cura di Fabio Mantovani, Verso la convergenza. L’attivazione dell’energia nell’umanità, 2006, p. 339

Swami Vivekananda: il “razionalismo” di un illuminato Indù


Questo filosofo Indù, tanto criticato per questo, sopratutto da René Guénon, ha scritto in difesa della ragione delle pagine stupende, ritornando, in tale apologia, alle radici della dottrina Yoga, fraintesa è falsata da molti critici occidentali e anche da non pochi orientali. La sua idea era certamente, quella di gettare un ponte tra Oriente e Occidente con un linguaggio comprensibile al nuovo continente. 
«Si dice che la ragione è abbastanza forte, ma che essa non è sempre sufficiente a farci raggiungere la verità, che molte volte essa s’inganna; da ciò si conclude che dobbiamo credere nell’autorità di una Chiesa. 

Così mi ha detto un cattolico romano; ma io non ho potuto riconoscere la logica del suo ragionamento. Dirò, dunque, che se la ragione è debole, un corpo di preti sarà ancora più debole. Perciò, non accetterò il suo verdetto, ma mi atterrò alla mia ragione, poiché, malgrado le debolezze, vi è qualche probabilità di arrivare alla verità.

Noi dobbiamo seguire la ragione e simpatizzare con coloro che non pervengono ad alcuna specie di credenza col seguire la ragione, poiché è meglio che l’umanità divenga atea seguendo la ragione, piuttosto che credere ciecamente in duecento milioni di dèi sull’autorità di chicchessia.

«Ciò che vogliamo è il progresso. La gloria dell’uomo è nel pensiero. Io credo nella ragione, avendo visto i mali causati dall’autorità, essendo nato appunto in un paese dove l’autorità è stata spinta fino all’estremo».

Parole ardite che sembrano pronunciate da uno dei più arditi razionalisti dell’Occidente! Mentre, invece, bisogna tenere ben presente che i motivi che spinsero Vivekananda a pronunziarle posseggono un carattere altamente spirituale e religioso. Questo filosofo, moralista Indù, si preoccupa, innanzitutto delle grandi vie da battere e dei mezzi più efficaci per raggiungere la verità è la perfezione spirituale, per entrare infine nel piano divino, nirvanico; e, come tutti i religiosi Indù, egli sapeva bene come ciò fosse possibile solo attraverso il potenziamento di tutte quante le facoltà psichiche dell’individuo.

René Guénon: «tradizionalismo» vs «anarchia intellettuale»


Nel suo libro Oriente e Occidente, René Guénon, grande esoterista del secolo scorso, ci spiega lucidamente come sia impossibile per un anarchico, e più spesso per un occidentale, capire l’Oriente. 
«Esistono cose impossibili da definire se non per mezzo di una negazione: a qualunque livello, l’anarchia non è che la negazione della gerarchia, né rappresenta alcunché di positivo. Una “civiltà anarchica” e senza principi, ecco che cos’é infine la civiltà occidentale attuale, è proprio questo intendiamo dicendo di essa che, al contrario delle civiltà orientali, non è una civiltà tradizionale». 
Parlando a proposito del tanto agognato riavvicinamento tra le due culture, Guénon, sottolinea il punto morto in cui ancora oggi si trova la società occidentale rispetto a quella orientale, a causa dell’individualismo intellettuale che confina con l’anarchia. Questo è il carattere proprio della mentalità moderna, attraverso il quale si affermano le sue tendenze antitradizionali. 

La società orientale, tradizionalmente divisa in caste e classi, non è concepibile se non nella condivisione dei valori non razionali, metafisici, antiscientifici, amoraleggianti e non sentimentali verso cui è orientata, invece, la società occidentale. Il problema non e quindi politico, ma culturale, valoriale e di principio. 

Quindi “príncipi” e “tradizione”, sono i due capisaldi per ripristinare l’intellettualità pura, e riavvicinarsi alla cultura d’Oriente. Si tratta di una questione di mentalità dunque. Siccome poi vi è corrispondenza tra mentalità e istituzioni, le ragioni di questa confusione sono le stesse per cui si immagina che qualunque individuo possa adempiere indifferentemente una qualsiasi funzione; l’ugualitarismo democratico non è che la conseguenza e la manifestazione nell’ordine sociale dell’anarchia intellettuale; gli occidentali d’oggi sono veramente, sotto ogni angolo visuale, degli uomini “senza casta”, come dicono gli Indù, o “senza famiglia”, come dicono i Cinesi; essi non possiedono più nulla di ciò che forma il fondo e l’essenza delle altre civiltà.

R. Guénon, Oriente e Occidente