Un parallelismo tra Eraclito e Lao Tze. Frammenti di un linguaggio iniziatico


È sempre difficile fare un parallelismo tra due grandi personaggi della storia della filosofia, a cavallo tra Oriente e Occidente. Figuriamoci avanzare l’ipotesi di un qualsiasi “legame”, che pure, a ben vedere, sembra essere presente nei testi di entrambi. Esistono, tuttavia, impressionanti affinità fra alcune teorie dei filosofi presocratici e l’insegnamento di alcuni maestri orientali, fra la dottrina dell’unità dei contrari di Eraclito, per esempio, e il Taoismo, la religione-filosofia cinese fondata da Lao Tze.

Sia Eraclito sia Lao Tze hanno lo stesso stile conciso, detto oracolare per la sua forte ambiguità; Eraclito fu soprannominato lo scuro, poiché scriveva solo brevissime frasi volutamente fortemente enigmatiche, ma anche Lao Tze amava la brevità: il suo Tao Te Ching (Il libro della via e della virtù) consta di soli cinquemila caratteri ideografici, ed é anch’esso strutturato per massime, aforismi, brevi sintesi, con grande gusto per la formulazione paradossale.

Eccone un esempio: «Il Tao che può essere chiamato Tao non e il vero Tao. Se il suo nome può essere pronunciato, non e il suo vero nome. Ciò che è senza nome è il principio del cielo e della terra». 

A volte è difficile stabilire se una di queste massime appartiene all’uno o all’altro filosofo. Eraclito dice: «Congiungimenti sono l’intero è il non intero, il concorde è il discorde, l’armonico e il disarmonico: da tutte le cose l’uno, e dall’uno tutte le cose»; tale pensiero potrebbe in effetti essere validamente usato per spiegare il simbolo del Tao. 

Proprio questo caso, tuttavia, dimostra come formulazioni analoghe possono essere state raggiunte per via del tutto indipendente. Se è vero come osserva l’autore Ubaldo Nicola, Eraclito e Lao Tze erano contemporanei (vissero entrambi fra il VI è il V secolo a. C.) e quindi fra i due non può esservi stato alcun tipo di relazione o dipendenza. Al contrario, secondo il mio modesto parere, vi sono entrambe, sia cronologicamente che esteticamente. Certo è che, entrambi, parlano con un linguaggio iniziatico, alla portata di pochi adepti. E chi può dire, allora, che non abbiano condiviso anche delle conoscenze esoteriche?

U. Nicola, Atlante di filosofia

L’influenza orientale nel pensiero di Johann Wolfgang von Goethe

Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). La sua attività fu rivolta alla poetica, al dramma, alla letteratura, alla teologia, alla filosofia, all’umanismo e alle scienze, ma fu prolifico anche nella pittura, nella musica e nelle altre arti.  

Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. 

Considerato dalla scrittrice George Eliot «…uno dei più grandi letterati tedeschi e l’ultimo uomo universale a camminare sulla faccia della terra». 

Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica.
«Il mondo orientale esercita il suo fascino anche sul classicismo grecizzante di Johann Wolfgang von Goethe il quale, pur affermando la pericolosità dell’“orientaleggiare”, nondimeno, nel Divano occidentale-orientale (1814-1827), trasfigura la propria esistenza nel mito e nella letteratura orientale. 

E giunge sino a trasformare la sua Weimar da Olimpo greco a Eden persiano, facendo piantare per tutto il piccolo ducato alberi di ginkgo biloba, l’archetipo goethiano della pianta originaria, la cui foglia è stata “affidata dall’Oriente al mio giardino”. 

L’interesse di Goethe per l’Oriente coincide con quello per la cultura semita, persiana e araba e, in maniera più ridotta, con quello per la cultura indiana, che egli conosce attraverso le lettere di Herder sulla Śakuntalā e la GitaGovinda nella traduzione tedesca (1802) del musicista Friedrich J. Hugo von Dalberg (1760-1812). 

Goethe non è attratto dall’esotismo misticheggiante, dall’alterità estraniante, ma è mosso sempre dall’obiettivo – romantico e classico al tempo stesso – di “riunificare tutte le cose separate da sempre” in una forma compiuta e in un modello utile per la vita».

F. Cirací, in U. Eco, R. Fedriga, La filosofia e le sue storie: L’età contemporanea, 

Il problema dell’esistenza come salvezza, e conquista della personalità


Il problema dell’esistenza è il problema della conquista di sé come totalità ed unità assoluta, il problema che coniuga dell’uomo tutti i fattori ed i valori del tempo e dell’eterno. L’uomo è un problema: «chi è? dove va? perché?»

Il problema dell’esistenza non solo implica, quindi, il possesso e la conoscenza dell’uomo nella sua totale manifestazione fisica e metafisica, ma implica anche il problema del metodo con il quale l’uomo può raggiungere questo possesso assoluto di sé e questa conoscenza, ponendosi nell’esistenza. 

In fondo il problema dell’esistenza è il problema della salvezza. L’umanità si è affaticata, si travaglia e lavorerà sempre intorno al problema della salvezza. Tutta la filosofia dell’Oriente e dell’Occidente, tutti gli sforzi delle religioni moderne ed antiche, sono stati sempre rivolti alla soluzione di questo problema. I metodi sono stati vari, i risultati ottenuti più o meno profondi, ma l’ideale è stato sempre identico.

Il problema dell’esistenza è un problema di conquista: l’esistenza non è data, ma deve conquistarsi, e questa conquista si concentrerà (come vedremo) nel raggiungimento della personalità intesa come sintesi di tutti valori umani e spirituali nello sfondo e nell’esperienza dell’eterno.

Il problema esistenziale non può essere risolto che in termini di progresso, di storicità e di affermazione, e non può essere appoggiato ad una concezione pessimistica della vita che prospetti ritorni o naufragi nel nulla. 

Il problema esistenziale, ripetiamo, non può essere che “consistenziale”, e cioè, non può che condurre ad una “affermazione” di valori, se questi sono veri valori. Il problema dell’esistenza è, quindi, eminentemente un problema di conquista e, come tale, un problema di ascesa promossa dallo sforzo e dalla volontà. 

Qualsiasi filosofia conducente alla rinunzia dei valori a cui l’uomo si sente e deve sentirsi chiamato, non può essere una filosofia esistenziale concreta.
La filosofia dell’esistenza non può essere fondata che nella voce che dal profondo ci stimola, ci esorta, ci spinge ad usare e ad ascendere sulla via dei valori eterni che, attraverso la conquista unitaria e totale di sè, l’uomo realizza mediante la sintesi dell’assoluto umano nell’assoluto divino.

Il mondo esistenziale è un mondo a sé che si eleva sopra la scala di tutti gli altri mondi. Esso si eleva su per il mondo umano, sopra quello spirituale, sopra quello religioso. Per raggiungerlo occorre sforzo di diuturno e volontà.

Per questo la filosofia dell’esistenza non può basarsi se non nel proposito di conseguire la perfezione, e sulla rinunzia di ciò che al mondo esistenziale può impedirci di ascendere e pervenire.

R. Giordani, L’esistenza come conquista della personalità, 1945 

Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron: la nascita dell’orientalismo in Europa

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La cultura orientale si diffuse in Europa a partire dalla metà del 1700 con la pubblicazione di alcuni testi sulla cultura indiana e cinese. Quindi ben lungi da qualsivoglia fantasticheria New Age. 

Un compito importantissimo lo svolse indubbiamente Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron (1731-1805), studioso francese delle lingue orientali, il quale non é conosciuto solamente per avere tradotto le Upanishad, ma viene ricordato anche per aver tradotto per primo lo Zend Avesta, ovvero il libro sacro dei persiani nel 1759; rendendo così possibile la diffusione di questo testo in Europa. Spingendosi verso Est fino a Surat, trovò alcuni testi avestici nascosti, riuscendo così a terminare la traduzione.

Anquetil-Duperron, eccentrico teorico dell’egualitarismo, che nella propria mente riusciva a conciliare il giansenismo con il cattolicesimo ortodosso e il brahmanesimo, viaggiò attraverso l’Asia per provare l’esistenza effettiva di certi Eletti e delle genealogie bibliche. Nel 1786 a Parigi, tradusse le Upanishad dal persiano al latino, dopo che nel 1657 il principe persiano Dārā Shukoh, studioso dell’Induismo e desideroso di giungere ad un sincretismo religioso che ponesse fine alle lotte religiose tra Indù e Musulmani, fece tradurre le Upanishad in persiano.

Le Upanishad formano il corpus di scritti che rappresentano il nucleo fondamentale della religione o filosofia Induista. Questi testi nel loro insieme formano la base da cui ha origine il Vedanta, ossia la scienza sacra e tradizionale del popolo induista.

Il Vedanta deriva dal termine Veda ( dalla radice Vid) che significa allo stesso tempo “vedere” e “sapere”, in quanto la vista è intesa come simbolo della conoscenza.

La pubblicazione in Europa di questo corpus di scritti risultò un grande successo; infatti, successivamente, uscirono una serie di commenti destinati a lasciare il segno per gran parte dell‘800.

Nelle nostre scuole, costrette sino a quel momento entro i limiti angusti dell’eredità greco-latina filtrata attraverso il Rinascimento (e dovuta pure, in gran parte, a fonti islamiche), egli introdusse la visione di innumerevoli civiltà del passato, di una infinità di letterature; e, ciò che più conta, i pochi paesi europei non furono più i soli ad avere impresso il loro marchio nella storia.

M.I.F.

E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente,

 

Swami Vivekananda: universalismo, fede in sé e unità del tutto tra idealismo e realismo.

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Non è cosa facile far comprendere all’Occidente tutta la portata morale del «Tat than asi», dell’insegnamento dato da Krishna ad Arjuna, che indusse un saggio indù dei tempi moderni, Swami Vivekananda, a proclamare: «E’ un ateo chi non crede in sè stesso, poiché la fede in sè significa la fede in tutti, data l’unità del tutto».

Allorquando si sia riusciti a ben comprendere questa verità, che costituisce il più saldo punto d’appoggio del concetto di fratellanza universale, ci si accorge come tutte le altre cose, nella vita dell’uomo, siano a questa subordinate.

Da gente pensatore Swami Vivekananda, morto al principio dello scorso secolo, ebbe, come pochi altri hanno avuto, una chiara percezione del «bisogno» di far sorgere questo spirito nuovo, tale da congiungere armonicamente le qualità dell’anima occidentale e di quella orientale.

Egli dimostra di possedere la più grande comprensione del sommo valore spirituale della persona e della società allorché grida: Quali dèi inutili volete cercare se non adorate il Dio che vedete intorno a voi, il Virat, cioè gli uomini che vi circondano?

Alla grande sintesi da noi invocata sarà possibile accedere solo attraverso una sana concezione realistico-spiritualistica. A tale riguardo, non possiamo non far nostra la raccomandazione fatta agli indù dal menzionato filosofo: Dovete cercare di unire nella vostra vita, un immenso idealismo ad un immenso spirito pratico. E oggi una simile preghiera che ci permettiamo di rivolgere ai nostri fratelli di Oriente e di Occidente.

R. Fedi, Nel Tempio dell”Io, Milano 1941

 

 

Il rapporto Dio-uomo, tra cristianesimo e induismo

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«L’influsso che hanno avuto Platone e Aristotele sulle religioni occidentali è paragonabile a quello che hanno avuto Madhva e Vallabha sull’induismo. 

Dio ci dona la grazia per aiutarci ad arrivvare a lui (azione) e l’uomo si ingegna di seguire i suoi precetti, per giungere a lui e trovare quella beatitudine che deriva dalla comunione con l’essere supremo e dalla certezza di avere agito secondo il suo disegno (reazione).

La differenza sostanziale tra le due religioni sta piuttosto nella concezione intrinseca di Dio. Per i cristiani è l’essere supremo che ci fornisce un certo bagaglio spirituale ed un certo numero di dati; al termine della nostra vita, giudicherà il modo in cui li avremo elaborati e l’uso che ne avremo fatto, assegnandoci il premio o il castigo.

Per gli induisti Dio è l’energia universale, fondante di tutte le cose e dato che anche noi siamo espressioni di questa energia tendiamo a ricongiungerci alla sorgente iniziale. 

A questo punto entra in gioco la teoria del Karma che ha sempre imbarazzato seriamente la teologia occidentale.

Non essendoci, per gli induisti, un premio ed un castigo, ma solamente uno sforzo di ricongiungersi a Dio, ciò può avvenire attraverso una sola vita o attraverso molte; dipenderà dall’uomo e dalla strada che seguirà per arrivare alla comunione suprema (sta come premessa al fatto che il karma – in parte sottointeso anche da Platone sotto l’aspetto della metempsicosi, – puo’ essere cambiato in corso d’opera Ndr.). Su questo punto ritorneremo varie volte.

Il fatalismo orientale va visto anche in questo senso, cioè nella coscienza individuale di agire secondo il disegno di un piano che, come ultimo atto, ci porterà a ricongiungerci con Dio. 

A bene vedere, questo concetto di predestinazione è una forma molto più ampia di amore, a differenza del concetto cristiano di un Dio infinitamente buono e amorevole.

Non si capisce come questo Dio possa essere infinitamente buono e, così pieno d’amore, se ci toglie, senza un motivo razionale o almeno comprensibile, dalla sua intima natura e quindi dal nostro stato di beatitudine iniziale, per gettarci sulla terra, fornirci un brevissimo arco di tempo per ricongiungerci a lui e alla fine di questa nostra esperienza giudicarci ed assegnarci il premio o il castigo senza possibilità di appello».

Franca Avvisati, premessa a Y. Ramacharaka, Bhagavadgita, cit.

Il cordone spirituale: camminiamo con i nostri antenati

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Ho sottolineato alcuni passi del libro in cui il maestro zen Thich Nhat Hahn, fa riferimento al cordone spirituale che ci accompagna nella vita, a prescindere dal fatto che ne siamo più o meno consapevoli, e che lo vogliamo o no. Essi formano la parte più importante del nostro cordone spirituale e genetico. «Con la pratica della meditazione, (…) se guardiamo in profondità, scopriamo che c’è un cordone ombelicale che ci lega a cose o alle persone.

(…) Se osserviamo in profondità, in ogni cellula del nostro corpo e della nostra coscienza è possibile riconoscere la presenza delle generazioni passate. Sia degli antenati umani, sia degli antenati non umani (…). Tutte queste generazioni di antenati sono presenti in ogni cellula del nostro corpo e della nostra mente. Siamo la continuazione della corrente della vita»

«Quando avevamo solo qualttro anni probabilmente pensavamo “Sono soltanto un bambino di quattro anni, un figlio o una figlia, un fratello o una sorella”. Ma in realtà eravamo già madri o padri».

«Nel nostro corpo c’erano tutte le generazioni passate e future. Quando cammminiamo sull’erba verde di primavera, facciamolo in modo da permettere a tutti i nostri antenati di camminare con noi. La pace, la gioia, la libertà di ogni passo si infonderanno  nelle generazioni dei nostri antenati e discendenti. Camminiamo con l’energia e la presenza mentale e a ogni passo vedremo generazioni di antenati e discendenti camminare con noi».

«Qualsiasi azione intraprendiano, i nostri antenati la stanno intraprendendo con noi. Tuo padre, tuo nonno e tuo bisnonno stanno compiendo quell’azione con te. Tua madre, tua nonna e tua bisnonna la stanno compiendo con te. I nostri antenati sono qui in ogni cellula del nostro corpo».

Thich Nhat Hahn, attribuisce, inoltre, alcune azioni che compiamo, e di cui poi ci pentiamo, come ereditate proprio dai nostri antenati, magari “più deboli” caratterialmente, chiamandole “forza dell’abitudine”. Quest’ultima, l’energia dell’abitudine, può essere trasformata in meglio, grazie alla meditazione e alla consapevolezza. Possiamo prenderene coscienza senza recriminare contro le abitudini negative delle passate generazioni, e porvi rimedio.

Thich Nhat Hahn, Fare pace con se stessi. Guarire le ferite e il dolore dell’infanzia, trasformandoli in forza e consapevolezza,

Jorge Luis Borges sull’esperienza del divino e del trascendente 

Declinato tra realtà e immaginazione, l’Oriente ricorre costantemente nella narrativa del grande scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges, uno degli scrittori che ha maggiormente contribuito allo sviluppo della cultura contemporanea. 

L’opera di Borges tende invero a saldare intimamente le due civiltà, quella occidentale e orientale, in una fusione di esperienze e significato. Si tratta dunque di una molteplicità di vicende ed idee che fluiscono verso una convergenza di spazio e tempo, fino a essere racchiuse in un punto fisico che è al tempo stesso unità e soluzione. La sua ricerca interiore tendente al trascendente, traspare da queste citazioni dell’Aleph:

«Vuoi vedere cosa non vista da occhi umani? Guarda la luna.Vuoi udire cosa non udita da orecchio? Ascolta il grido dell’uccello. Vuoi toccare cosa non toccata da mano?Tocca la terra. In verità io dico che Dio deve ancora creare il mondo.»

«Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi.

[…] Come sarò il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo?

O sarà come me?

“Vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte”.

«Per la via, per la scalinata della piazza della Costituzione, nella sotterranea, tutti i volti mi parvero familiari. Temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quell’impressione di tornare a tutte le cose. Fortunatamente dopo alcune notti d’insonnia, mi vinse di nuovo l’oblio.»

«Allora avvenne quel che non posso dimenticare né comunicare. Avvenne l’unione con la divinità, con l’universo (non so se queste parole differiscono). L’estasi non ripete i suoi simboli; c’è chi ha visto Dio in una luce, c’è chi lo ha scorto in una spada o nei cerchi di una rosa.

Io vidi una Ruota altissima, che non stava avanti ai miei occhi né dietro né ai lati, a in ogni parte a un tempo.

Quella Ruota era fatta di acqua, ma anche di fuoco, e (benchè si vedesse il bordo) era infinita.

Intrecciate fra loro, la formavano tutte le cose che saranno, che sono e che furono, ed io ero uno dei fili di quella trama totale. […] Lì erano le cause e gli effetti e mi bastava vedere quella Ruota per comprendere tutto, senza fine. Oh gioia di comprendere, maggiore di quella di operare o di sentire.

Vidi l’universo e vidi gl’intimi disegni dell’universo. Vidi le origini che narra il Libro della Tribù. Vidi le montagne che sorsero dall’acqua, vidi i primi uomini di legno, vidi i vasi che si ribellarono agli uomini, vidi i cani che lacerarono loro la faccia. Vidi il dio senza volto che sta dietro gli dei.»

«Disse Tennyson che se potessimo comprendere un solo fiore sapremmo chi siamo e cos’è il mondo.

Forse volle dire che non c’è fatto, per umile che sia, che non racchiuda la storia universale e la sua infinita concatenazione di effetti e di cause. Forse volle dire che il mondo visibile è intero in ogni rappresentazione,

così come la volontà, secondo Schopenhauer, è intera in ogni individuo.

I cabalisti affermarono che l’uomo è un microcosmo, un simbolico specchio dell’universo; secondo Tennyson, tutto lo sarebbe.»

«Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?I mistici, in simili circostanze, son prodighi di emblemi: per significare la divinità un persiano parla di un uccello che in qualche modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, d’una sfera di cui il centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo; Ezechiele, di un angelo con quattro volti che si dirige contemporaneamente a Oriente e a Occidente, a Nord e a Sud.»

J. L. Borges, Aleph

Alan Watts: la forza della liberazione fa esplodere il mondo


Quando al vecchio maestro Hyakujo venne chiesto in che cosa consistesse lo zen, questi rispose “Quando ho fame mangio Quando ho sonno, dormo”. Il postulante controbatte “Beh ma non e ciò che fanno tutti? Non sei proprio come gli esseri ordinari” Oh no rispose il maestro, “gli esseri ordinari non fanno nulla del genere quando hanno fame non si accontentano di mangiare, ma pensano a ogni genere di cose. Quando sono stanchi non si accontentano di dormire, ma passano da un sogno all’altro”.
Abbiamo corso più del necessario. Non c’è problema, perché siamo stati attivi, e col nostro agire abbiamo ottenuto un sacco di cose positive. Tuttavia, ecco cosa ci ha suggerito Aristotele molto tempo fa, uno dei suoi migliori suggerimenti: “Lo scopo dell’azione è la contemplazione”. In altri termini, a che fine essere sempre, continuamente, terribilmente occupati? Quando la gente è indaffarata, pensa che arriverà da qualche parte, che riuscirà a raggiungere la meta prefissata e a ottenere qualcosa. C’è davvero un valido motivo per agire se sappiamo che non stiamo andando da nessuna parte, e se sappiamo agire nello stesso modo in cui danziamo, cantiamo o suoniamo, allora davvero non stiamo andando in nessuna direzione. Stiamo semplicemente compiendo l’azione pura.
Se d’altra parte vogliamo agire con l’idea che in seguito a tale azione arriveremo in qualche posto, in cui tutto sarà perfetto, ecco che siamo ricaduti nella ruota della gabbia dello scoiattolo: condannati senza speranza a ciò che nel buddhismo prende il nome di samsara, la ruota, o rincorsa, della nascita e della morte. È questa la conseguenza del pensare di arrivare da qualche parte. Ci siamo già, e solo una persona che ha scoperto di esserci già è davvero in grado di agire. Una persona del genere non agisce in modo convulso con l’idea di arrivare da qualche parte. Non si può agire creativamente se non sulla base della più assoluta calma, con la mente capace di tanto in tanto di smettere di pensare.

La parola tathata, che è il termine sanscrito per ‘talità, quiddità,’ o ‘vastità, in realtà significa qualcosa del tipo: ‘da-da-da’, sulla base della parola tat, che in sanscrito vuol dire ‘quello’. Sempre in sanscrito, l’esistenza viene descritta come ‘tat tvam asi’, ‘quello voi siete’, ovvero, in un linguaggio corrente, ‘tu sei quello’. Però da-da-da è il primo suono che viene emesso dal neonato, allorché si guarda intorno e dice proprio: “Dada-da-da-da , ovvero Quello, quello, quello, quello, quello! . I padri se ne compiacciono, pensando che il piccolo con quel ‘da-da’ voglia dire ‘daddy’, invece, secondo la filosofia buddhista, tutto l’universo è da-dada, vale a dire diecimila funzioni, diecimila cose, ovvero una talità, nella quale ci ritroviamo tutti.

La forza della liberazione fa esplodere il mondo: è una corrente troppo forte, che un semplice cavo elettrico non può reggere finché pensate di stare per uscire di testa, e all’improvviso diventa… sì, tutto ciò che è, noi, seduti qui in questa stanza. Grazie, grazie di cuore.

A. W. Watts, Il libro sui tabù che ci vietano la conoscenza di ciò che veramente siamo