Roberto Assagioli: psicosintesi, teoria e influenze mistiche

Assagioli ha creato un modello di psiche umana e di psicologia con evidenti influenze che comprendono misticismo, filosofia orientale, psicoanalisi e logica occidentale. Per lui era importante che la psicosintesi rimanesse scientifica. Con essa Assagioli ha magistralmente creato una sintesi tra le tradizioni filosofiche e religiose orientali e occidentali, riuscendo in un lavoro di astrazione dei principi fondamentali comuni. Una sintesi che spazia tra religione e scienza, Freud e Jung, spirito e materia, macrocosmo e microcosmo.

Egli praticava Yoga, (Hatha e Raja) e vari tipi di meditazione. Si interessava di Teosofia e fu ispirato dal misticismo e dall’esoterismo orientale e occidentale. Sia la madre che la moglie erano addentrate nella teosofia. E la fonte della Teosofia dalla tradizione indù / neoplatonica influenzò profondamente il suo pensiero. La similitudine con le tradizioni mistiche orientali e occidentali è evidente per esempio nella sua concezione del Sé, che ricorda molto la descrizione orientale di “Atman”.

Negli anni ebbe vari contatti che gli consentirono di approfondire la sua conoscenza delle tradizioni spirituali. Incontrò il filosofo ebreo Martin Buber, gli esoteristi Ouspensky e Alice Bailey, il buddista Lama Govinda, il poeta indiano Rabindranath Tagore, l’astrologo Dane Rudhyar, il mistico sufi Inhayat Khan, il maestro Buddhista Suzuki, il fondatore della logoterapia Victor Frankl e lo psicologo umanista Abraham Maslow.

Alcuni credono che la psicosintesi sia una versione scientifica della teosofia di Alice Bailey, esoterista con la quale Assagioli lavorò personalmente. Però con la quale iniziò una collaborazione solo a partire dagli anni ’30, quando già aveva sviluppato gran parte della sua teoria. Poco sappiamo di questo perché, Assagioli manteneva il silenzio sulle sue frequentazioni e il lavoro teosofico. Infatti temeva si creasse confusione e che la psicosintesi fosse confusa con una religione e scientificamente rifiutata e derisa.

Assagioli fa anche diversi riferimenti ai mistici occidentali, come Giovanni della Croce e San Francesco d’Assisi.

All’interno della psicologia occidentale non c’è dubbio che William James, C. G. Jung e Viktor Frankl fossero suoi compagni spiritualmente vicini.

Quindi la psicosintesi è e rimane un approccio psicologico e scientifico anche se sicuramente ha avuto influenze religiose e filosofiche.

“Capire i concetti di base dei Veda è stato per me importante per capire la psicosintesi transpersonale. Ma a qualunque religione un individuo appartenga può sempre ritrovare nella psicosintesi i concetti di base del proprio credo”. Assagioli aveva una vasta cultura e attingeva a tutte le tradizioni mistiche e filosofiche. Con la sua grande capacità di astrazione e sintesi ha estratto da esse dei principi universali validi per tutti gli esseri umani in tutte le epoche.

“Abbiamo ora raggiunto il quindicesimo gruppo di simboli, quello della risurrezione e del ritorno, quello che nei vangeli viene indicato come il ritorno del figliol prodigo alla casa del padre. Questo è un ritorno a uno stato precedente e punta a un ritorno all’essere originale primordiale.

Ciò presuppone una teoria emanatistica dell’anima, che scende, diventa un tutt’uno con la materia, e poi ritorna alla sua “casa”, la patria celeste – non come era prima, ma arricchita dall’esperienza di auto-consapevolezza che è maturata in fatica e conflitto”.

R. Assagioli, Transpersonal Development

“Nosce te Ispsum”, secondo i grandi maestri

Conosci te stesso o “ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ” è un iscrizione che campeggiava sul frontone del tempio dell’oracolo di Apollo a Delfi. Tre parole facili da enunciare, ma difficili da comprendere. Tutti i grandi mistici occidentali e asceti orientali, hanno sempre insistito su questo profondo insegnamento. Nel più profondo dell’essere umano è nascosto un principio universale, comune a tutti gli esseri viventi e, quando l’uomo, dopo un lungo e arduo percorso, ne assume consapevolezza, si libera per sempre dall’illusione del mondo sensibile e dalle catene che lo legano al mondo materiale, regno del male e della sofferenza.

Ma come è indotto questo concetto nelle parole dei grandi maestri?

«Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’interiorità dell’uomo abita la Verità». (Sant’Agostino)

«Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione». (Vangelo di Tommaso)

«Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel fondo proprio, in ciò che ha di più intimo, giacché nessuno conosce Dio se prima non conosce se stesso». (Maister Eckhart)

«La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno sogna. Chi guarda all’interno apre gli occhi». E ancora, insiste lo stesso autore: «Solo il viandante che ha peregrinato nel suo infinito mondo interiore potrà accostarsi all’anima scoprendo che, per anni, non ha fatto altro che cercare Lei, perché Lei è dietro e dentro ogni cosa». (Carl Gustav Jung)

«L’uomo, dopo la sua vana ricerca di Dio fuori se stesso, completa il cerchio e ritorna al punto d’inizio l’anima umana; e scopre che il Dio che cercava per mari e monti, in ogni ruscello, in ogni tempio, in chiese e cieli, che il Dio che immaginava essere seduto in cielo a governare il mondo, era il suo stesso Sé. Io sono Lui, Lui è Me. Nulla è Dio se non Io, e questo piccolo “io” non è mai esistito». Anche se noi possiamo essere paragonati solo alla scintilla divina che in noi, e non a Dio. Lo stesso mistico indiano incalza: «Tutti i poteri dell’universo sono già dentro di voi. Siete voi che vi siete coperti gli occhi con le vostre mani. Vi lamentate che è buio. Siate consapevoli che intorno a voi non ci sono tenebre. Togliete le mani dai vostri occhi e apparirà la luce, che era lì da un’eternità». E infine: «E’ davvero uno Yogin chi vede se stesso nell’intero Universo e l’intero Universo in se stesso».(Swami Vivekananda)

«I due concetti, realizzazione del Sé e conoscenza di Dio, sono sinonimi».(Paramahansa Yogananda)

«Questo supremo Brahman, anima universale, immensa dimora di tutto ciò che esiste, più sottile di ogni cosa sottile, costante: in verità é te stesso, perché tu sei Quello». (Kaivalya Upanishad)

«Quando mi identifico con il corpo, o Signore, sono la tua creatura, eternamente separata da Te. Quando mi identifico con l’anima, sono una scintilla di quel Fuoco Divino che Tu sei. Ma quando mi identifico con l’Atman, io e Te siamo una cosa sola».(Dal Ramayana)

Concludiamo questa breve rassegna, con un testo di origine sconosciuta:

«Ti avverto, chiunque tu sia: oh tu che desideri sondare gli arcani della Natura, se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi, non potrai trovarlo nemmeno fuori. Se ignori le meraviglie della tua casa, come pretendi di trovare altre meraviglie? In te si trova occulto il Tesoro degli Dei. Oh Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei».

Il Velo di Maya tra induismo e filosofia occidentale

Come erroneamente, spesso, si crede, il concetto di “Velo di Maya”, non proviene dalla tradizione induista, ma è un concetto introdotto dal filosofo occidentale Arthur Schopenhauer nel secolo diciannovesimo.


Nell’Induismo il termine sanscrito Maya, indica, genericamente, quel magico potere divino che crea mille forme ed esperienze delle quali l’uomo è irrimediabilmente prigioniero, scambiando per reale, un sogno ingannevole e illusorio.


Maya è quasi un fantasmagorico gioco magico che cela, l’immutabile Principio Assoluto, il Brahman, creando l’illusorio mondo materiale. Schopenhauer, grande studioso delle filosofie orientali, conscio che il mondo materiale è solo apparenza, illusione e sogno, afferma, ripetutamente, nei suoi saggi che, tra noi e la vera realtà, è come se vi fosse uno schermo che ce la mostra distorta e non come essa è veramente: il Velo di Maya.


La nostra “realtà” è dunque, secondo Schopenhauer, una “rappresentazione” che ha due aspetti essenziali: il soggetto rappresentante e l’oggetto rappresentato. Entrambi esistono soltanto all’interno della rappresentazione, come due lati o parti di essa, tanto che non può esistere soggetto senza oggetto.


Il filosofo, riconosce l’esistenza di una forza cieca, che egli denomina come Volontà, analoga alla Maya induista: una forza priva di finalità, arbitraria, causa dell’esistenza della rappresentazione bipolare caratterizzata dal dualismo Soggetto-Oggetto, che causa una insaziabile attaccamento al mondo irreale ed illusorio in cui siamo immersi.


Rimanendo fedele, alle concezioni filosofiche orientali, Schopenhauer afferma che attraverso la “Liberazione”; esiste la possibilità di squarciare il Velo di Maya, cioè di uscire dalla condizione umana. Il primo passo per conseguire questo stato è quello di prendere consapevolezza che si sta vivendo nell’illusione: occorre dunque uscire dall’ambito puramente fenomenico e sottrarsi al dominio della Volontà, che impedisce all’essere umano di fare esperienza della Verità, del principio assoluto di realtà.

A. Shopenhauer, “Il Mondo come Volontà e Rappresentazione

La “Regola aurea” e la religione dell’umanità

Che cos’è la Regola d’oro? O “Regola aurea”. È una legge unica nel suo genere, perché “sembra esprimere un’intuizione fulminante e nello stesso tempo accessibile ad ogni conoscenza e coscienza umana”, in quanto è presente in tutte le principali correnti religiose e sapienziali delle diverse culture del mondo.

Per questo si può ben definire anche come la sintesi di codici etici universali. La presenza della Regola d’oro, secondo studi recenti,risale al 3000 a.C. dove nella tradizione vedica indiana si trova scritto: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te; e desidera per gli altri quello che desideri e aspetti per te stesso”.

Una delle più antiche citazioni della Regola d’oro, la troviamo nel filosofo Confucio, vissuto in Cina tra il VI e V secolo a.C. Nel giudaismo, invece, troviamo la Regola d’oro dal 200 a.C. nel libro di Tobia, ma sarà l’insegnamento di Gesù Cristo a formularla nella sua versione positiva: “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te.”

In età medievale verrà inserita nella Regola di san Benedetto prima, e nella Regola non bollata di san Francesco d’Assisi poi.

Come ricorda il filosofo Vigna, la Regola d’oromerita ai nostri tempi un’attenzione particolare, non è, in sé e per sé, una regola religiosa, ma una Regola “laica” e, aggiungiamo noi, una solida base per la costruzione di una religione universale dell’umanità.

In conclusione, allenandoci insieme, ovunque, all’esercizio della Regola d’oro, in continuità con le più antiche tradizioni culturali e religiose del mondo, potremo rispondere alla stretta necessità delle donne e degli uomini di ritrovarsi insieme in un percorso esistenziale nel quale la fraternità universale, sia una scelta consapevole e condivisa.

T. Tatransky, La Regola d’oro come etica universale, Milano 2006, p. 643.

Rudolf Steiner: la “Stella dell’Unione” tra scienza ufficiale e scienza occulta

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La stella che brilla su questo libro [La Scienza Occulta, N.d r.] è la Stella dell’Unione, e la sua luce, alta sul buio mare del presente, è destinata alla prossima salvezza dei naviganti che per tutta la notte hanno navigato sotto cieli ciechi, e si apprestano adesso a raggiungere alfine il porto dell’originaria patria, una patria da conquistare a nuovo nella rinnovellata coscienza maturatasi durante il lungo esilio della peregrinazione.

Ora, poco prima dell’alba, sorge la stella mattutina: la luce del Cristo spirituale, che riporterà gli uomini all’unione divina di tutti nell’Uno, e questa Unione sarà anche quella di due scienze: una ufficiale occidentale moderna, con una occulta orientale antichissima. Ma entrambe muteranno la loro natura, se vorranno raggiungere l’Unione, e solamente nell’unione reciproca entrambe son vere.

 

R. Steiner, La Scienza Occulta, 1932; prefazione di A. Onofri, p. 7

Swami Vivekananda: il “razionalismo” di un illuminato Indù


Questo filosofo Indù, tanto criticato per questo, sopratutto da René Guénon, ha scritto in difesa della ragione delle pagine stupende, ritornando, in tale apologia, alle radici della dottrina Yoga, fraintesa è falsata da molti critici occidentali e anche da non pochi orientali. La sua idea era certamente, quella di gettare un ponte tra Oriente e Occidente con un linguaggio comprensibile al nuovo continente. 
«Si dice che la ragione è abbastanza forte, ma che essa non è sempre sufficiente a farci raggiungere la verità, che molte volte essa s’inganna; da ciò si conclude che dobbiamo credere nell’autorità di una Chiesa. 

Così mi ha detto un cattolico romano; ma io non ho potuto riconoscere la logica del suo ragionamento. Dirò, dunque, che se la ragione è debole, un corpo di preti sarà ancora più debole. Perciò, non accetterò il suo verdetto, ma mi atterrò alla mia ragione, poiché, malgrado le debolezze, vi è qualche probabilità di arrivare alla verità.

Noi dobbiamo seguire la ragione e simpatizzare con coloro che non pervengono ad alcuna specie di credenza col seguire la ragione, poiché è meglio che l’umanità divenga atea seguendo la ragione, piuttosto che credere ciecamente in duecento milioni di dèi sull’autorità di chicchessia.

«Ciò che vogliamo è il progresso. La gloria dell’uomo è nel pensiero. Io credo nella ragione, avendo visto i mali causati dall’autorità, essendo nato appunto in un paese dove l’autorità è stata spinta fino all’estremo».

Parole ardite che sembrano pronunciate da uno dei più arditi razionalisti dell’Occidente! Mentre, invece, bisogna tenere ben presente che i motivi che spinsero Vivekananda a pronunziarle posseggono un carattere altamente spirituale e religioso. Questo filosofo, moralista Indù, si preoccupa, innanzitutto delle grandi vie da battere e dei mezzi più efficaci per raggiungere la verità è la perfezione spirituale, per entrare infine nel piano divino, nirvanico; e, come tutti i religiosi Indù, egli sapeva bene come ciò fosse possibile solo attraverso il potenziamento di tutte quante le facoltà psichiche dell’individuo.

René Guénon: «tradizionalismo» vs «anarchia intellettuale»


Nel suo libro Oriente e Occidente, René Guénon, grande esoterista del secolo scorso, ci spiega lucidamente come sia impossibile per un anarchico, e più spesso per un occidentale, capire l’Oriente. 
«Esistono cose impossibili da definire se non per mezzo di una negazione: a qualunque livello, l’anarchia non è che la negazione della gerarchia, né rappresenta alcunché di positivo. Una “civiltà anarchica” e senza principi, ecco che cos’é infine la civiltà occidentale attuale, è proprio questo intendiamo dicendo di essa che, al contrario delle civiltà orientali, non è una civiltà tradizionale». 
Parlando a proposito del tanto agognato riavvicinamento tra le due culture, Guénon, sottolinea il punto morto in cui ancora oggi si trova la società occidentale rispetto a quella orientale, a causa dell’individualismo intellettuale che confina con l’anarchia. Questo è il carattere proprio della mentalità moderna, attraverso il quale si affermano le sue tendenze antitradizionali. 

La società orientale, tradizionalmente divisa in caste e classi, non è concepibile se non nella condivisione dei valori non razionali, metafisici, antiscientifici, amoraleggianti e non sentimentali verso cui è orientata, invece, la società occidentale. Il problema non e quindi politico, ma culturale, valoriale e di principio. 

Quindi “príncipi” e “tradizione”, sono i due capisaldi per ripristinare l’intellettualità pura, e riavvicinarsi alla cultura d’Oriente. Si tratta di una questione di mentalità dunque. Siccome poi vi è corrispondenza tra mentalità e istituzioni, le ragioni di questa confusione sono le stesse per cui si immagina che qualunque individuo possa adempiere indifferentemente una qualsiasi funzione; l’ugualitarismo democratico non è che la conseguenza e la manifestazione nell’ordine sociale dell’anarchia intellettuale; gli occidentali d’oggi sono veramente, sotto ogni angolo visuale, degli uomini “senza casta”, come dicono gli Indù, o “senza famiglia”, come dicono i Cinesi; essi non possiedono più nulla di ciò che forma il fondo e l’essenza delle altre civiltà.

R. Guénon, Oriente e Occidente

Il problema dell’esistenza come salvezza, e conquista della personalità


Il problema dell’esistenza è il problema della conquista di sé come totalità ed unità assoluta, il problema che coniuga dell’uomo tutti i fattori ed i valori del tempo e dell’eterno. L’uomo è un problema: «chi è? dove va? perché?»

Il problema dell’esistenza non solo implica, quindi, il possesso e la conoscenza dell’uomo nella sua totale manifestazione fisica e metafisica, ma implica anche il problema del metodo con il quale l’uomo può raggiungere questo possesso assoluto di sé e questa conoscenza, ponendosi nell’esistenza. 

In fondo il problema dell’esistenza è il problema della salvezza. L’umanità si è affaticata, si travaglia e lavorerà sempre intorno al problema della salvezza. Tutta la filosofia dell’Oriente e dell’Occidente, tutti gli sforzi delle religioni moderne ed antiche, sono stati sempre rivolti alla soluzione di questo problema. I metodi sono stati vari, i risultati ottenuti più o meno profondi, ma l’ideale è stato sempre identico.

Il problema dell’esistenza è un problema di conquista: l’esistenza non è data, ma deve conquistarsi, e questa conquista si concentrerà (come vedremo) nel raggiungimento della personalità intesa come sintesi di tutti valori umani e spirituali nello sfondo e nell’esperienza dell’eterno.

Il problema esistenziale non può essere risolto che in termini di progresso, di storicità e di affermazione, e non può essere appoggiato ad una concezione pessimistica della vita che prospetti ritorni o naufragi nel nulla. 

Il problema esistenziale, ripetiamo, non può essere che “consistenziale”, e cioè, non può che condurre ad una “affermazione” di valori, se questi sono veri valori. Il problema dell’esistenza è, quindi, eminentemente un problema di conquista e, come tale, un problema di ascesa promossa dallo sforzo e dalla volontà. 

Qualsiasi filosofia conducente alla rinunzia dei valori a cui l’uomo si sente e deve sentirsi chiamato, non può essere una filosofia esistenziale concreta.
La filosofia dell’esistenza non può essere fondata che nella voce che dal profondo ci stimola, ci esorta, ci spinge ad usare e ad ascendere sulla via dei valori eterni che, attraverso la conquista unitaria e totale di sè, l’uomo realizza mediante la sintesi dell’assoluto umano nell’assoluto divino.

Il mondo esistenziale è un mondo a sé che si eleva sopra la scala di tutti gli altri mondi. Esso si eleva su per il mondo umano, sopra quello spirituale, sopra quello religioso. Per raggiungerlo occorre sforzo di diuturno e volontà.

Per questo la filosofia dell’esistenza non può basarsi se non nel proposito di conseguire la perfezione, e sulla rinunzia di ciò che al mondo esistenziale può impedirci di ascendere e pervenire.

R. Giordani, L’esistenza come conquista della personalità, 1945 

Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron: la nascita dell’orientalismo in Europa

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La cultura orientale si diffuse in Europa a partire dalla metà del 1700 con la pubblicazione di alcuni testi sulla cultura indiana e cinese. Quindi ben lungi da qualsivoglia fantasticheria New Age. 

Un compito importantissimo lo svolse indubbiamente Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron (1731-1805), studioso francese delle lingue orientali, il quale non é conosciuto solamente per avere tradotto le Upanishad, ma viene ricordato anche per aver tradotto per primo lo Zend Avesta, ovvero il libro sacro dei persiani nel 1759; rendendo così possibile la diffusione di questo testo in Europa. Spingendosi verso Est fino a Surat, trovò alcuni testi avestici nascosti, riuscendo così a terminare la traduzione.

Anquetil-Duperron, eccentrico teorico dell’egualitarismo, che nella propria mente riusciva a conciliare il giansenismo con il cattolicesimo ortodosso e il brahmanesimo, viaggiò attraverso l’Asia per provare l’esistenza effettiva di certi Eletti e delle genealogie bibliche. Nel 1786 a Parigi, tradusse le Upanishad dal persiano al latino, dopo che nel 1657 il principe persiano Dārā Shukoh, studioso dell’Induismo e desideroso di giungere ad un sincretismo religioso che ponesse fine alle lotte religiose tra Indù e Musulmani, fece tradurre le Upanishad in persiano.

Le Upanishad formano il corpus di scritti che rappresentano il nucleo fondamentale della religione o filosofia Induista. Questi testi nel loro insieme formano la base da cui ha origine il Vedanta, ossia la scienza sacra e tradizionale del popolo induista.

Il Vedanta deriva dal termine Veda ( dalla radice Vid) che significa allo stesso tempo “vedere” e “sapere”, in quanto la vista è intesa come simbolo della conoscenza.

La pubblicazione in Europa di questo corpus di scritti risultò un grande successo; infatti, successivamente, uscirono una serie di commenti destinati a lasciare il segno per gran parte dell‘800.

Nelle nostre scuole, costrette sino a quel momento entro i limiti angusti dell’eredità greco-latina filtrata attraverso il Rinascimento (e dovuta pure, in gran parte, a fonti islamiche), egli introdusse la visione di innumerevoli civiltà del passato, di una infinità di letterature; e, ciò che più conta, i pochi paesi europei non furono più i soli ad avere impresso il loro marchio nella storia.

M.I.F.

E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente,

 

Swami Vivekananda: universalismo, fede in sé e unità del tutto tra idealismo e realismo.

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Non è cosa facile far comprendere all’Occidente tutta la portata morale del «Tat than asi», dell’insegnamento dato da Krishna ad Arjuna, che indusse un saggio indù dei tempi moderni, Swami Vivekananda, a proclamare: «E’ un ateo chi non crede in sè stesso, poiché la fede in sè significa la fede in tutti, data l’unità del tutto».

Allorquando si sia riusciti a ben comprendere questa verità, che costituisce il più saldo punto d’appoggio del concetto di fratellanza universale, ci si accorge come tutte le altre cose, nella vita dell’uomo, siano a questa subordinate.

Da gente pensatore Swami Vivekananda, morto al principio dello scorso secolo, ebbe, come pochi altri hanno avuto, una chiara percezione del «bisogno» di far sorgere questo spirito nuovo, tale da congiungere armonicamente le qualità dell’anima occidentale e di quella orientale.

Egli dimostra di possedere la più grande comprensione del sommo valore spirituale della persona e della società allorché grida: Quali dèi inutili volete cercare se non adorate il Dio che vedete intorno a voi, il Virat, cioè gli uomini che vi circondano?

Alla grande sintesi da noi invocata sarà possibile accedere solo attraverso una sana concezione realistico-spiritualistica. A tale riguardo, non possiamo non far nostra la raccomandazione fatta agli indù dal menzionato filosofo: Dovete cercare di unire nella vostra vita, un immenso idealismo ad un immenso spirito pratico. E oggi una simile preghiera che ci permettiamo di rivolgere ai nostri fratelli di Oriente e di Occidente.

R. Fedi, Nel Tempio dell”Io, Milano 1941